Categoria: Eventi

L’impresa è essere normali

Ottimo. Dalle ultime disposizioni – ordinanza regionale n^43 – i ragazzi del Friuli Venezia Giulia potranno girare liberamente all’interno del proprio comune, ma non potranno fare attività motoria nei centri sportivi all’aperto. Quindi, se fanno una bella vasca in centro, spintonandosi e raccontandosi le ultime, nulla da eccepire. Ma non potranno fare ginnastica, potenziamento, esercizi aerobici in ambiente naturale, ossia tutto quello che può servire all’organismo umano per rinforzarsi e svilupparsi in armonia. Nessuno osi raccontare la barzelletta che ciascuno può, se vuole, lavorare nel giardino o in camera: perfino gli adulti più motivati faticano ad allenarsi in autonomia, figurarsi gli adolescenti. Siamo all’ennesimo paradosso: per contenere il contagio si va a colpire chi lo affronta. L’aspetto più umiliante di tutta la vicenda è il giudizio sotteso di irresponsabilità verso chi si occupa della formazione delle nuove generazioni: ma chi è quel pazzo educatore criminale che manderebbe degli indifesi allo sbaraglio? Quale istitutore, incurante di tutto e di tutti, farebbe del male a dei minori ai quali gli è stata affidata la custodia? Non c’è stato un caso che sia uno segnalato alle autorità da maggio ad oggi, con esercitazioni condotte quasi sempre all’aperto (un pò per scelta un po’ per costrizione). Gruppi spalmati su più turni per evitare assembramenti; istruttori e atleti come bravi funamboli che cambiano orari e abitudini di vita pur di soddisfare la fame di sport di tutti; protocolli rispettati maniacalmente in ogni circostanza; allenamenti dosati su misura di età e sopportabilità del carico. Non ci sono state assenze, nessuna resistenza o rifiuto: tutti uniti nel dare a questi bambini e ragazzi un’opportunità di vita, un’oasi di presenza fisica in giornate sempre più virtuali e fredde. Malgrado ciò, eccoci nel registro degli accusati: come vi viene in mente di fare attività fisica ai minori mentre la percentuale dei contagi sale? Sconsiderati e imprudenti: questi siamo. I danni che vediamo oggi non sono nulla rispetto a quello che dovremo riparare domani: una generazione intera derubata della propria normalità. Poiché, come dice Lucio Dalla, ‘l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale’. Mai attuale come oggi, purtroppo.

piccoli eroi, piccole eroine

Avete visto le facce dei ragazzi e delle ragazze che si allenano all’aperto? A noi capita spesso. Sono volti espressivi e parlanti. Cosa dicono? Dicono che va bene se devono fare addominali su una superficie rigida e fredda, che non fa nulla se la competizione si sposta dal numero di canestri a quello delle flessioni. Non è importante dove, è importante come. Se c’è amore, non c’è luogo migliore di un altro. Bisogna davvero essere innamorati per esercitarsi a temperature ed orari  scomodi, con la luce del giorno che lascia spazi limitati di manovra. Soffrono, è normale. Come tutti. Vorrebbero che i canestri tornassero a contare, che gli arbitri fischiassero (certamente a favore), che il pubblico applaudisse, che si potesse tornare a raccontare stupidaggini in spogliatoio, che ci si potesse abbracciare e spintonare, che il sabato e la domenica fossero giorni di partite e non di allenamento. Eppure, non c’è un momento in cui il sorriso si spenga. Non si spegne di fronte a ripetizioni noiose di esercizi senza palla o dove la palla si stacca solo con destinazione canestro. Non si spegne sebbene non possano piacevolmente distrarsi per raccontarsi all’orecchio le ultime marachelle dell’amico comune. Gli istruttori? Hanno cambiato pelle: da insegnanti a studenti. Mai come adesso la professione è messa alla prova, costretta a rivalutare obiettivi e metodi, in costante adattamento a innumerevoli variabili. Quindi, benedetta pandemia? Non scherziamo, ma una cosa è certa e verificabile: atleti e tecnici forse non sono più bravi di prima – il tempo perso nell’allenarsi in situazione avrà un peso in futuro – ma sono più forti di prima (non certo e solo fisicamente). Non si è mai abusato così tanto come in questo periodo della parola ‘grazie’: ciò che in tempi normali è scontato oggi non lo è più. Nessuno si permetta di dire che questa generazione è rammollita e invertebrata: per quanto il sostantivo in fase d’emergenza  sia spesso utilizzato – giustamente –  per chi si batte in prima linea, anche questi ragazzi e ragazze possono essere definiti con il termine di ‘eroi’ ed ‘eroine’. Diciamo, vista l’età, piccoli eroi, piccole eroine.

fuori ‘con’ testa

Proviamo a fare chiarezza: qual’è la differenza tra attività motoria e sportiva? Qualcuno ci ha provato con l’abbigliamento: se metto la tuta significa che sono un atleta. La soluzione all’enigma è in verità più complessa: risiede pertanto nell’intensità dello sforzo? Anche questo parametro si dimostra debole: estremizzando, un giocatore di scacchi che compete per il campionato del mondo consuma meno calorie di un uomo o una donna che svolgono lavori di casa o di giardinaggio. Quindi? Quindi la distinzione sta nella intenzionalità: l’attività motoria è per gran parte spontanea, l’attività sportiva è finalizzata al raggiungimento di determinati obiettivi. Chiunque faccia una passeggiata in centro città non si pone alcun scopo competitivo se non quello di fare una camminata, respirare ossigeno e, magari, fermarsi a chiacchierare ogniqualvolta capiti di incontrare qualcuno. Lo sportivo, invece, anche se in solitudine, programma la sua uscita, definisce il percorso, si dà dei tempi minimi e massimi di esecuzione. Se tiro due calci al pallone sul prato, sto facendo attività motoria. Se invece, sempre sul prato, eseguo esercizi mirati al miglioramento tecnico del gesto del tiro, sto facendo attività sportiva in forma individuale. La discriminante sta nella intenzionalità del gesto stesso. Cosa significa in forma individuale? Non propriamente uno alla volta, vuol dire che ciascuno svolge lo stesso esercizio avendo a disposizione uno spazio congruo a mantenere il distanziamento. Perché all’aperto? Non solo perché la conduzione virale è ridotta ai mimimi termini, quanto perché l’ossigeno è l’elemento determinante nella lotta al Covid. Stare in casa, per quanto ci venga ripetuto alla noia tutti i giorni, non è il migliore sistema di difesa. Uscire per stare in gruppo assembrati senza protezione nemmeno. Fare attività motoria e sportiva all’aperto in totale sicurezza e rispetto delle norme è invece indispensabile per la salute fisica e, soprattutto, mentale. 

In tutti i sensi

Già la didattica a distanza è un grosso problema, figurarsi lo sport. A distanza possiamo salutarci, raccontarci la giornata, persino ridere o piangere. Insegnare scienze motorie al computer è come chiedere ad un cuoco di cucinare senza ingredienti o pensare di saperlo fare dopo aver letto frettolosamente una ricetta sul libro della nonna. Anche lo sport segue la stessa regola: si può fare solo con la partecipazione straordinaria di tutti i sensi. Lo sport è rumore: quello del pallone che batte per terra o picchia sul ferro; le voci dei giocatori che si rincuorano o si mandano in quel paese; le urla dell’allenatore che chiede perfezione; il respiro forte e affannoso di chi corre avanti e indietro senza sosta; il fischio dell’arbitro, gli applausi del pubblico (incluse le intemperanze), le scarpe che cigolano sul legno. Lo sport è odore: quello inconfondibile dello spogliatoio, un mix di sudore e varichina; il pallone, che sa di cuoio consumato da tante mani e battaglie; le magliette, profumate in entrata, stonfe e irrespirabili in uscita; perfino la vittoria e la sconfitta hanno un odore e un sapore diverso. Lo sport è colore: le divise, simbolo perpetuo di appartenenza e distinzione; le linee del campo, le aree, le scarpe, i tubolari, le bandiere, il tabellone elettronico che decreta incontestabilmente e cromaticamente sconfitti e vincitori. Lo sport è soprattutto contatto: il contatto fra compagni di squadra fatto di mani alte, abbracci, e quello con gli avversari, corpo a corpo nei limiti della legalità. Strette di mano, pacche sul sedere, tagliafuori, blocchi: niente a che vedere con uno schermo freddo e neutrale. Non faremo sport a distanza. O in presenza, o non faremo sport. Andremo in posti isolati, su strade sperdute e dimenticate, oppure su cortili polverosi e garage con canestri arrugginiti: ciascuno saprà cosa fare, lo farà facendo e vivendo, non propriamente on line o in forma virtuale.

disobbedienza – obbedienza – creativa

Esiste l’ossequiosità cieca. La rivolta, con accenni di aggressività. E poi c’è una terza via, la disobbedienza – o obbedienza a seconda di come la si vuol guardare – ‘creativa’, che non è violenta, è apolitica – soprattutto apartitica – e si regge sul concetto binario di una praticabile lettura del presente all’interno di un accettato – anche se a malavoglia – riferimento normativo. C’è chi la definisce una scorciatoia, una furberia. Allenarsi all’aperto in autunno, con orari scomodi, svolgendo attività motoria o esclusivamente esercizi in forma individuale non è da considerarsi una vera e propria strategia riferentesi alla scaltrezza. I furbi utilizzano generalmente mosse più agevoli, al limite del lecito, tipo copiare un compito, saltare la fila, buttarsi in area: in questo caso, potendo svolgere attività solo sotto questa forma, è difficile parlare di opportunismo o convenienza. Siamo tutti un po’ invidiosi degli sport definiti ‘non di contatto’, che continueranno ad allenarsi al coperto e al calduccio, ignari e indifferenti delle condizioni climatiche utilizzando fasce orarie di tutto comodo. A questo proposito, ci sarebbe un interessante riflessione scientifico-tecnica da fare: qualcuno dovrà spiegare la differenza tra un atleta che lancia una clavetta in alto e un altro che fa rimbalzare il pallone a terra. È vero che la pallacanestro non ha alcun senso senza il contatto fisico, ma in questo periodo bizzarro della nostra esistenza abbiamo imparato a trarre beneficio anche allenandoci distanziati. Non è condivisibile l’idea per cui la pallacanestro si possa fare in un solo modo: come esistono mille tattiche in partita, esistono mille forme per allenarsi. Non può essere inoltre differita una riflessione legata alla disparità di trattamento tra le varie discipline che potrebbe, a lungo andare, comportare conseguenze gravi nel mondo sportivo: di fronte a continue incertezze e rimandi, potremmo assistere allo svuotamento di alcuni settori in favore di altri. Lo sport, per quanto si cerchi di non ammetterlo, è indispensabile e ciascuno troverà le soluzioni più convenienti. L’Associazione sportiva che scrive, ritiene che fare poco sia meglio di fare niente. I bambini e i ragazzi attendono risposte coraggiose, che non significa, ripetuto alla potenza, temerarie o imprudenti. Non siamo eroi, ma da educatori cerchiamo tutte le vie possibili, anche quelle più scomode, per stare a fianco dei nostri atleti.

De Profundis

Cari uomini di scienza e di politica, sapete cosa succederà adesso? No, non potete saperlo, visto che vivete nelle vostre comode dimore di cristallo ad anni luce dalla terra. Siete esperti di numeri, curve epidemiologiche, percentuali, indici ed algoritmi. A voi, che ve ne intendete di ‘salvaguardia della salute’, abbiamo il piacere di presentare lo scenario prossimo venturo. Anche questo, a suo modo, fatto di numeri. I bambini, ragazzi e giovani che praticano sport individuali o di squadra in ambito dilettantistico, abbandoneranno le palestre e i campi di gioco per trascorrere il tempo libero in attività sicure e che non possono subire stravolgimenti. Ecco un elenco frettoloso: televisione per i meno attrezzati, play station, game boy, chat di gruppo per i più fortunati. Per quelli un po’ più vivaci esistono attività più spinte, ad esempio atti vandalici e scorribande. Ognuno si arrangerà come meglio può e i danni potremo contarli alla fine. Se fosse un indovinello, cari uomini di scienza e di politica, vi risponderemmo che avete fatto acqua da tutte le parti. Nemmeno fuochino. Avete rivolto la vostra smania persecutoria nei confronti di un ambiente sano, che ha fatto capriole e avvitamenti pur di garantire la salubrità ai propri iscritti. Visto che non si è stati capaci di intervenire tempestivamente su trasporti e piazze affollate, scagliamoci dove è più facile trovare il colpevole. Sarebbe interessante capire, da maggio ad oggi, quanti casi di positività sono stati riscontrati nelle società dilettantistiche che si occupano di sport di contatto. Questi numeri in verità non vi interessano. E poi, scusate, se ci fosse davvero una consistente percentuale di rischio, pensate davvero che saremmo così incoscienti da restare aperti? Credete plausibile possa esserci qualcuno che possa mettere a repentaglio la salute dei minori? Offensivo, oltre che inutile e pretestuoso. Ora alle benemerite associazioni non resterà che recitare il De Profundis. Cari uomini di scienza e di politica, quando il virus sarà debellato – perché prima o poi ne verremo a capo – non contate solo i morti, per i quali proviamo continuamente commozione e cordoglio. Provate a contare anche i feriti, nell’anima e nel diritto sacrosanto di vivere, come si deve, la propria gioventù.

felici di sbagliarci

Con un DPCM alla settimana è pressoché impossibile programmare. Chi ci giudica in malafede provi a districarsi nel ginepraio di documenti, ordinanze, decreti che costellano la nostra quotidianità. Non c’è nulla da inventarsi: c’è solo un piccolo chiodino che tiene lo sport ancora appeso e prima o poi, sulla spinta dei numeri e del terrorismo mediatico, finirà per cedere. Pagheranno gli innocenti, se di colpevoli si può parlare. Dopo sforzi eroici per rimettere in piedi la baracca e con un attenzione maniacale nel rispetto delle regole, lo sport si fermerà, per la felicità di chi cataloga la motricità come un’attività non essenziale. Del resto, la bassa considerazione del Paese verso ciò che fa riferimento al corpo non è una novità: due ore di educazione fisica alla settimana rappresentano una mano frettolosa di vernice su una parete che si scrosta giorno dopo giorno. Per non parlare dell’assenza cronica nella scuola primaria, dove il movimento è il principale strumento di apprendimento per i bambini. Per quanto moderni e tecnologici, non riusciamo a disfarci della concezione tipicamente ‘gentiliana’ della scuola, dove la corporeità è sottomessa al potere del pensiero. Saremo ripetitivi, ma togliere lo sport in questo momento avrebbe degli effetti catastrofici sulle nuove generazioni. Proviamo a riassumere: sul piano fisico, indebolimento del sistema immunitario, aumento delle patologie cardio vascolari, crescita esponenziale dei casi di sovrappeso e obesità; sul piano psicologico, sfiducia nel futuro, depressione, instabilità  caratteriale; sul piano emotivo, incapacità ad esprimere ciò che si prova in profondità; sul piano sociale, rarefazione dei rapporti, chiusura in se stessi, boom di relazioni virtuali. Per non parlare delle associazioni sportive: vivendo esclusivamente di proventi elargiti dai soci, non potranno sopravvivere. Molte hanno già rinunciato a lottare, altre si aggiungeranno. Se muore lo sport di base, muore tutto lo sport. Pensateci bene: stupiteci una volta tanto, saremmo felici di sbagliarci.

Mario Bortoluzzi, una vita (breve) nella pallacanestro

Mi dicevi ‘Console, dove vai quest’anno a fare danni?’ oppure “Se alleni tu, posso allenare anch’io’, ‘Truccolo e Piazza sarebbero diventati giocatori comunque’ e così via. Con il sarcasmo sempre pronto e con un’amore sviscerato per la pallacanestro. Avessimo avuto tutti, nell’ambiente cestistico, questa enorme passione, non ci troveremmo così in basso. Smisurato in tutto, nelle dimensioni, nelle battute, nella generosità, nelle auto. Procuratore per diletto, più che per professione. Grande conoscitore della materia, pur vivendola spesso ai margini. Non ti perdevi un evento importante, che fosse giovanile o senior: ricordo le sgroppate in giornata a Rimini per vedere le finali nazionali juniores in cerca di nuovi talenti. Non certo in Mitsubishi, di cui eri follemente geloso, ma con la comune Ford Fiesta di famiglia, di cui ti sei lamentato ogni santo minuto durante il viaggio. Le tue imitazioni erano celebri: riuscivi a dare un tocco di leggerezza in un ambiente spesso appesantito da invidie, maldicenze, lotte intestine. Ci hai lasciato troppo presto: anche in questo hai voluto esagerare, bruciando drammaticamente i tempi. E, ripensandoci, avevi ragione su tutta la linea, anche sulle frecciate che a malapena tentavo di scansare. Mario, non sono riuscito a salutarti: perdonami, non farci mancare, ovunque tu sia, l’ironia che non ti ha salvato, ma che può risparmiare tutti noi dal prenderci troppo sul serio.

Livio Consonni

quale contatto?

Ma scusate un secondo. Ci siamo allenati con un giocatore alla volta e parliamo di sport di contatto? Quale contatto? Da maggio a giugno, pur di riaprire e dare ossigeno ai ragazzi, abbiamo allenato individualmente, è possibile spiegare ragionevolmente quale sia il motivo per chiudere agli sport cosiddetti di ‘contatto’? Qualcuno può illuminarci sulla differenza tra il distanziamento di atleti che lanciano una clavetta ed altri che fanno rimbalzare un pallone a terra? Tra una classe che fa ginnastica a corpo libero ed un gruppo di ragazzi che fa preparazione fisica? Potrei capire la competizione dove non può esserci controllo dei corpi in movimento vista la caratteristica di imprevedibilità degli sport di situazione: ma allenare il gesto tecnico e preparare fisicamente il corpo cosa hanno a che fare con il contatto? Il ragionamento è semplice: o si chiudono tutte le attività sportive – e sarebbe una catastrofe, per utenti e associazioni dilettantistiche – o non si chiude per nessuno – con alcuni accorgimenti, ad esempio vietare le competizioni e consentire gli allenamenti in forma tecnico/didattica oppure, come in Francia, salvaguardare le fasce con maggiore necessità di svago e movimento, come i bambini e i ragazzi. Fermare l’attività fisica sarebbe un crimine verso la salute. Un paradosso: per salvaguardare la salute si attenta alla stessa. Siate coerenti e rivolgetevi verso altre sponde. Lo sport è troppo aggrappato alla sopravvivenza per permettersi di trasgredire: e poi, ha le regole nel sangue, il mancato rispetto sarebbe un attentato a se stesso, un vero e proprio suicidio.

Covidvenza

Convivenza: ‘vivere insieme nello stesso luogo’. È quello che dovremmo imparare: noi e il Covid 19, vivere insieme nello stesso luogo. Abbiamo provato – e continuato – a trattarci da nemici e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Lo sport insegna ad affrontare gli avversari con rispetto: non si parla di eliminazione, né di sopraffazione, semmai di confronto aspro ma leale. Chiudere è come rinunciare a giocare, ritirarsi prima di aver lottato, alzare bandiera bianca. Fermare lo sport è una scelta incomprensibile e controproducente: non c’è ambiente più controllato e sicuro delle palestre. Igiene perpetuo, spogliatoi interdetti, misurazione temperatura, numeri scaglionati, istruttori ed atleti educati all’emergenza. Sacrifici immensi per garantire a bambini, ragazzi e giovani qualche ora di sano divertimento attraverso la pratica delle discipline che più amano. È necessario tirare fuori ancora la ‘storiella’ – perché così viene recepita ai piani alti – del valore preventivo sulla salute dell’attività motoria? È difficile capire che un atleta avrà meno possibilità di contagiarsi rispetto ad un non praticante? Colpiamo lo sport, così avremo più debolezza complessiva e maggiore vulnerabilità. Teniamo i ragazzi a distanza, così potranno finalmente passare tutto il tempo a navigare in mondi artificiali e asettici: pur non avendo la certezza di sconfiggere il virus, avremo probabilmente una generazione debole, complessata, asociale. C’è uno slogan ricorrente, mutuato dalla scherma, che calza a pennello: ‘non abbassare la guardia’. Cioè, non rilassarti, continua a proteggerti e a proteggere gli altri, non prendere sottogamba il duello. Significa anche: non abbandonare la pedana, finisci il combattimento, costi quel che costi. Ecco il significato di convivenza che è contenuto nel DNA del mondo sportivo: non mollare la presa, non fuggire il dolore, affronta con dignità e coraggio le difficoltà della competizione. Se chiude lo sport, chiuderanno per asfissia le società sportive. È proprio quello che vogliamo?