Mese: Luglio 2020

Al cuor non si comanda

Tra negazionisti e allarmisti, meglio i ragazzi. Sono loro il paradigma, il punto di partenza, il vero riferimento. Hanno bisogno di adulti impavidi, certo non di pazzi incoscienti, di qualcuno che li prenda forte per mano – metaforicamente purtroppo – e infonda messaggi di speranza. Se i grandi se la fanno sotto, come possiamo pensare che i piccoli ne vengano fuori indenni? Il mondo sportivo, in questa fase, ha un ruolo determinante: rendere normale ciò che sembra straordinario. L’attività fisica non è una componente aggiuntiva, ma essenziale: per arginare i possibili rischi di obesità, per rinforzare il sistema immunitario che, guarda caso, ha il compito di respingere gli attacchi virali. Cose buone e risapute. Ma c’è un altro aspetto, che se trascurato, può, a lungo andare, compromettere la salute – intesa in senso globale – degli adolescenti: dove, come e con chi potranno esprimere le loro emozioni? Le gambe possono andare nei parchi o nei sentieri di montagna, la testa può funzionare in qualsiasi posto, ma il cuore, sede dei sentimenti, come farà ad esprimersi senza un cinque alto, un abbraccio, una condivisione di gioia e dolore che solo l’agonismo può regalare? L’attesa spasmodica per la partita, il fischio dei tre minuti che indica la fine del riscaldamento, il pallone che entra nella retina, il fischio arbitrale ingiusto, la ramanzina del coach all’intervallo, le urla del pubblico – anche se le porte chiuse in alcuni casi non è detto siano un cattivo affare – la vittoria, la sconfitta, i supplementari, la doccia liberatoria. Sensazioni uniche che non si possono ricreare in laboratorio e che i surrogati tecnologici non possono minimamente riprodurre. Dove andranno i ragazzi a liberare le emozioni se lo sport rimane chiuso? Vostre altezze che avete potestà decisionale, signorie dello sport e delle federazioni, è il momento del coraggio: non saranno certo le competizioni, come il calcio dimostra, a diffondere il contagio. Utilizzando tutte le procedure e le precauzioni possibili, non sprecate altro tempo prezioso. Lo sport senza competizione non è sport: lo dice la parola stessa. Gli adulti possono competere con se stessi, i giovani hanno necessità di confrontarsi. Gli allarmi hanno identico valore: se c’è timore per l’epidemia, dobbiamo averlo anche per l’integrità delle nuove generazioni.

L’agonia di scuola e sport

Scuola e sport devono tornare a vivere secondo la propria natura. Per capirsi: se devo entrare in classe per non avere relazioni umane, tanto vale stare a casa; se devo allenarmi o giocare in assenza di fase agonistica, oppure tappandomi il naso e la bocca, meglio chiudere tutto e partecipare ai mondiali di e-basket, così tanto apprezzati in era pandemica. È possibile, per un periodo circoscritto, chiedere il sacrificio di apprendere i contenuti didattici attraverso uno schermo freddo o di praticare la pallacanestro attraverso la ripetizione, a secco, dei movimenti fondamentali della disciplina: ciò nonostante, la sopportazione ha giorni contati, non può che essere a tempo determinato, pena la morte per asfissia delle due istituzioni più significative – beninteso oltre la famiglia – nella formazione integrale dei giovani. Se non si vuole – ed è tutto da dimostrare – che il tempo dei ragazzi venga assorbito per intero da attività virtuali che favoriscono certamente l’area cognitiva ma trascurano inevitabilmente la dimensione fisica ed emozionale, occorre assumersi responsabilità e fare scelte conseguenti. Questo tirare a campare, questa lungaggine nell’indecisionismo, comporteranno effetti gravissimi per tutti gli operatori che a settembre dovranno rimettere in moto la macchina. Ci saranno nuovi contagi? Possibile. Ma non è logico e sensato rimanere fermi in base ad una preoccupazione. Ci sono focolai? Vero. Ma in quanto circoscritti, facilmente arginabili. Se c’è alluvione in Friuli Venezia Giulia, si fermano i campionati anche in Piemonte? Quando si apprende di colleghi che, per via di una certa età, vorrebbero insegnare precauzionalmente a distanza, sorge una domanda: non sono già abbastanza evidenti i rischi della professione? Gli attraversamenti pedonali, i genitori infuriati, i viaggi d’istruzione: insidie permanenti, il mestiere di educare non fa coppia con massima protezione. Questa è l’epoca del coraggio, da non confondersi con temerarietà: il temerario va all’assalto lancia in resta, il coraggioso affronta la realtà assumendo su di sé una dose di rischio. Stando immobili, ogni giorno che passa la scuola e lo sport si spengono: un’agonia lenta, ma inesorabile.

Il sogno di Nathanel

Nathanel, sulla terra, non esiste più. La squadra di giovani cestisti del cielo, già sfortunatamente numerosa, dovrà fare posto ad un altra promessa. È ormai lunga la lista di ragazzi che non potranno più calpestare il legno: a Nathanel piaceva stare in aria, ora i suoi piedi non atterreranno, balzeranno tra una nuvola e l’altra. Quindici anni, un’età meravigliosa: fame di autonomia,  rifugio nell’amicizia, fuga dall’autorità, passione nello sport. Un gioco che si trasforma in tragedia. Un cuore avvezzo a battere forte che improvvisamente si ferma. Per un sorriso che si spegne, una stella si accende. Chi ha la fortuna di poter raccontare le prodezze giovanili, sa perfettamente che un angelo custode o qualche altra entità sconosciuta vegliava sull’imprudenza o sul rischio illimitato di alcune azioni insensate. Chi può dire, in quegli anni di spensieratezza e incoscienza, di non aver mai visto in faccia la morte? Come nella pallacanestro un secondo fa la differenza tra vittoria e sconfitta, così tra la vita e la morte. Un attimo, dove non c’è spazio per il pensiero, dove un ragionamento arriva troppo tardi.  Oggi regna il silenzio e la compassione per chi è sopravvissuto: i familiari che lo piangeranno per sempre, gli amici che si torceranno tra mille domande, i soccorritori che, malgrado gli sforzi e la bravura, non hanno potuto impedire la tragedia. Per chi vive di pallacanestro, ricordare è un dovere: ciò che Nathanel non ha potuto completare, spetta a noi finirlo. Il suo sogno di diventare giocatore diventerà desiderio di ognuno. Nathanel, sulla terra, non esiste più. Nei nostri cuori, già sanguinanti da gravi perdite, un posto lo troverà sempre.

posti liberi

Per una volta, proviamo a mettere da parte le contrapposizioni. Un’idea, una proposta, un’iniziativa, non necessariamente devono rappresentare un pericolo. Lo sport insegna: le squadre che si affrontano non sono entità fatte per distruggersi, semmai il pretesto per tirare fuori il meglio che ciascuno ha dentro. Purtroppo a Pordenone, e non solo in ambito sportivo, spesso e volentieri ogni nascita viene considerata una minaccia per lo status quo. Giusto 20 anni fa, quando sorse il Nuovo Basket 2000, scoppiò un pandemonio: ‘cosa vogliono’, ‘è proprio necessario’, ‘ci sono già abbastanza associazioni in giro’, queste le frasi malevole ricorrenti. ‘Hanno rubato le primizie dell’orto’, quando, in realtà, se le stesse avessero perpetuato con i sistemi di coltivazione precedenti, sarebbe seccato tutto nel giro di qualche mese. Le novità fanno paura, perché rappresentano il cambiamento. Mantenere le posizioni, spartire il controllo, gestire l’esistente: ecco il sedativo perfetto, il tranquillante che placa la smania di mutazione. Gli accordi, eccetto le alleanze in stato di guerra, non si fanno contro qualcuno, ma per favorire la crescita, rifinire il grezzo, trasformare ciò che è ancora informe. Ben vengano tutte le iniziative volte a modificare ciò che sembra immutabile: a meno che, qualcuno si arroghi il diritto di pensare che non esista altra verità o soluzione al di fuori del proprio punto di vista. Non esiste monopolio nel mondo sportivo: esistono entità diverse che rispondono ad esigenze diverse. Pensare di intrappolare il variegato spettro di aspettative in un unico soggetto è sbagliato e fuorviante, oltre che antiquato. C’è posto per tutti e non sarà difficile capire in tempi brevi che la sopravvivenza di uno diventerà la salvezza altrui. Non solo: collaborare tra diversi diventerà la carta vincente. Se c’è qualcuno in pericolo, è proprio la pallacanestro di questi tempi: camminando tra le macerie e i cadaveri ammassati, scorgere qualcuno ancora in piedi disposto ad andare avanti dovrebbe riempire il cuore di speranza. 

 

Accordo di collaborazione tra NUOVO BASKET 2000 e SISTEMA BASKET PORDENONE

COMUNICATO CONGIUNTO 

Le ASD SISTEMA BASKET e NUOVO BASKET 2000 hanno siglato un accordo di collaborazione nell’intento di dare maggiore visibilità e consistenza al movimento della pallacanestro a PORDENONE unendo risorse umane, tecniche, organizzative ed economiche per lo sviluppo di questa disciplina sportiva così intimamente e storicamente legata alla città. 

Le necessità, per il SISTEMA BASKET, titolare della prima squadra attualmente partecipante al campionato di C GOLD, di avere un settore giovanile di riferimento a cui attingere, e per il NUOVO BASKET 2000, da vent’anni scuola di pallacanestro nel cuore cittadino, di favorire ai propri giovani atleti uno sbocco naturale verso la maturazione tecnica e il completamento formativo, si sono spontaneamente incontrate per dare vita ad un percorso che, negli anni, dovrebbe consentire, come è sempre stato, il lancio dei giocatori pordenonesi più promettenti nelle fila del team che rappresenta la città.

Consequenzialmente, il NUOVO BASKET 2000 diventa società satellite del SISTEMA BASKET; tutte le formazioni giovanili indosseranno l’identica divisa che riporterà il doppio logo a  simboleggiare l’avvenuto accordo nel rispetto delle diverse identità. Come immediata iniziativa, è stata allestita una formazione under 20 con i migliori prospetti che daranno linfa e profondità alla rosa della prima squadra pordenonese.

A breve, verranno resi pubblici tutti gli eventi legati a questa storica sinergia, a partire da inizio settembre dove sui campi all’aperto dell’EX FIERA si apriranno i festeggiamenti per i 20 anni di vita del NUOVO BASKET 2000. Tale circostanza, tra divertimento per i bambini e allenamento per i più grandi, sarà l’occasione formidabile perché i due mondi, junior e senior, si possano fisicamente incontrare e conoscersi, dando inizio ad un cammino fianco a fianco che, nella speranza di tutti, possa essere longevo e fruttuoso.

amore e pallacanestro

Cos’è l’amore per la pallacanestro? In estrema sintesi: la restituzione di ciò che abbiamo ricevuto. Ne abbiamo avuto prova in questi ultimi giorni: due allenatori professionisti, che hanno fatto della pallacanestro la propria vita, si sono spesi senza risparmio in sapienza e fervore; insieme a loro, un manipolo di ragazzi desiderosi e spugnosi, irrefrenabili nel tentativo di catturare movimenti, concetti e parole nuove. Una iniziativa nata per caso, tra un caffè e una chiacchierata,  potremmo dire come piace oggi ‘in emergenza’, volutamente protetta da schematismi programmatici che potessero minarne la fragranza. E come spesso accade, ciò che esce spontaneamente diventa una meraviglia per gli occhi. Una settimana unica, indimenticabile; chi l’ha vissuta, potrà raccontarla negli anni a venire perché come dice il sommo, ‘le più belle cose durano un giorno, come le rose’. Non era così indispensabile riempire il tempo di ragazzi annoiati: gli effetti saranno visibili per anni, non c’è virus più potente e ineliminabile della passione. È stato un incontro speciale, tra due mondi solitamente distanti e inavvicinabili: allenatori professionisti che si occupano di giovani amatori. Quando mai? Trattati per nome e con i guanti bianchi! Non finiremo mai di ringraziare abbastanza Gianni Montemurro e Andrea Vicenzutto per aver smesso giacca e cravatta e indossato, per l’occasione, il grembiule di lavoro. A loro auguriamo sinceramente il meglio: saperli da queste parti è per noi una straordinaria opportunità, ma se dovessimo perderli sapendo che stanno operando altrove, saremmo doppiamente felici. Perché due estremi possano avvicinarsi, è necessario che chi sta in alto si abbassi e chi sta sotto faccia l’inverso. I ragazzi hanno fatto del loro meglio: i volti sorridenti, ma anche dispiaciuti, durante gli attimi conclusivi ne sono testimonianza tangibile. Messaggio per tutti gli operatori del settore: se vi sentite in credito, non è questo il vostro posto. Oggi, più che mai, non c’è  bisogno di mascherine, ma di generosità. Sarà l’amore a salvare la pallacanestro.

Giù la maschera

Mascherina e sport sono ossimori. Possiamo scomodare la NASA, i migliori cervelli sparsi nel globo terraqueo, la risultante non cambia: se il dispositivo serve a intercettare le particelle virali in entrata e uscita, lo stesso vale per l’anidride carbonica e l’ossigeno. Perciò, se durante lo sforzo fisico si va inevitabilmente in iperventilazione, la maschera diventa un impedimento alle normali funzioni respiratorie. Punto. Chi ha provato a giocare con la maschera, quella vera, dopo aver subito un trauma al setto nasale, conosce bene l’argomento. In aggiunta, vogliamo parlare di visione periferica e di sudorazione? Negli sport di squadra, il controllo visivo a 360 gradi è fondamentale, soprattutto di questi tempi dove le azioni di gioco si sviluppano in frazioni di secondo. Cosa sappiamo, poi, degli effetti dei materiali sulla pelle, visto che si parla di totale aderenza? Qualcuno, per caso, ha fatto i conti con atleti asmatici? Facciamo un semplice ragionamento: per evitare il rischio di improbabili contagi, ne prendiamo un altro di proporzioni maggiori, in un mondo inesplorato dove le conseguenze, al momento sconosciute, possono essere fatali? Ho profondo rispetto per i ricercatori del Politecnico, capaci di ideare e realizzare prodotti di alta specializzazione, in condizioni di normalità: lo sport agonistico, che richiede contenuti fisiologici vicino al limite estremo, risponde a parametri totalmente diversi. C’è da augurarsi un ripensamento: sarebbe una follia obbligare tutti gli atleti, in particolare i più giovani, ad indossare la protezione per partecipare alle gare di campionato. La pallacanestro, come la pallavolo, sono quelle che abbiamo conosciuto fino ad oggi: se non si è nelle condizioni di riprendere secondo le modalità consuete, vuol dire che ci si allenerà sui fondamentali fino a vomitarli e l’agonismo attenderà tempi migliori. Abbiamo giustamente tolto l’inutile dal corpo (collanine, orecchini, anelli, orologi) per ragioni preventive, ora invece lo indossiamo! Sarebbe necessaria una riflessione anche sull’aspetto economico della vicenda, meglio sorvolare per ragioni di spazio e tutela personale. Spiacente caro Marco, incolpevole testimonial, grande simbolo della pallacanestro italiana ed orgoglio della nostra terra, su questa strada non ti seguo: non averne a male. Ti preferisco senza.

palestre, aule e l’asino

Da insegnante – per giunta di ginnastica (termine di gran lunga migliore di educazione fisica, ancor più del moderno scienze motorie) – mi è sempre sfuggito il senso della gestione delle palestre, in orario pomeridiano, affidata alle istituzioni scolastiche. Si fa un gran vociare in questi giorni della possibilità, non del tutto remota, che gli impianti scolastici vengano negati alle associazioni sportive: è giusto sapere, per dover di cronaca, che molte di queste strutture sono già proibite, ancor prima che il Covid facesse capolino, visto che molti Consigli di Istituto hanno pensato bene – o male, a seconda delle parti – di non concederle se non ai propri alunni. Dunque, non è una novità che le scuole si arroghino il diritto di proprietà sulle palestre. Oggi si parla di assunzione di responsabilità: in realtà, non è altro che un paravento legale per impedire a personale ‘esterno’ di varcare la soglia dei propri confini. Nessuna scuola, se non in circostanze eccezionali, ha mai prestato volentieri le ‘proprie stanze’ se non perché costretta a farlo. Le motivazioni, seppur poco comprensibili, sono limpide: prestare le chiavi a qualcun altro significa perdere il possesso esclusivo del bene (come se, gli ‘abitanti’ dell’edificio ne fossero davvero i proprietari); le pulizie sono un fertile terreno di battaglia; i danni, che naturalmente se commessi in famiglia possono essere tollerati, diventano alibi di ferro per rifarsi sui malcapitati ospiti (dimenticando che, spesso, le società fanno un vero e proprio servizio manutentivo). Messo così, le scuole non hanno alcun interesse affinché le società sportive possano usare i propri locali, quantunque la nobiltà di scopi, ossia lo sviluppo armonico dei nostri giovani attraverso l’esercizio fisico e sportivo. Perciò, esiste un solo modo per risolvere la vexata quaestio: togliere la patria potestà alle istituzioni scolastiche per quanto riguarda l’organizzazione extra-curricolare delle palestre e affidarla totalmente a chi si occupa del bene pubblico, ossia alle amministrazioni locali. Solo i Comuni possono, in ottemperanza ai propri doveri, impedire che le palestre si trasformino in aule e metterle così a disposizione della collettività. Per l’identico ma opposto motivo, le associazioni che hanno in gestione le strutture sportive dovrebbero negare l’ingresso mattutino alle scuole? Personalmente, mi troverai per strada ad insegnare la mia materia. In questo balletto patetico di scarica barile, non è solo il ministro della pubblica istruzione a doversi muovere: se è vero che lo sport è un’attività essenziale per il bene di tutti, e non solo di alcuni, ciascuno dovrà fare la propria parte. Associazioni sportive, governi locali e nazionali, istituzioni scolastiche, federazioni sportive. Qualcuno, prima o poi, la responsabilità dovrà prendersela e smettere di lavarsene le mani. Oppure, come novelli asini di buridano, sceglieremo di non scegliere, decidendo il nostro fatal destino: la morte per inedia dello sport italiano.

I paladini della salute

Quando si parla di salute, siamo tutti paladini. Lo sono gli uomini di scienza, i sanitari, i politici, gli insegnanti, i genitori, tutti coloro che ricoprono cariche istituzionali. Tutti aspirano, anche con una certa onestà intellettuale, alla salvaguardia del bene supremo: peccato che nella babele attuale si parlino lingue diverse e ci sia poca disponibilità alla traduzione. Dare credito a qualcuno è diventato un affare complicato: dovremmo fidarci degli incorreggibili che anche di fronte a dati incoraggianti continuano imperterriti nella diffusione di messaggi precauzionali e allarmistici oppure di chi, assumendo una certa dose di rischio e comunque attenendosi alle disposizioni , ha provato a rimboccarsi le maniche e reagire? Senza alcun dubbio, in questi casi la scelta migliore è stata e resterà sempre quella di stare fermi. Stando fermi non si sbaglia mai. Scegliere di non scegliere è pur sempre una scelta. Come Ponzio Pilato ha insegnato, lasciare che siano altri a prendere decisioni di vitale importanza significa mettersi al riparo non solo da possibili ingiurie collettive ma anche da gravi provvedimenti a proprio carico. Tuttavia, la storia è piena di uomini e donne che, incuranti di popolarità e incolumità, hanno sfidato la comodità propria e di chi gli stava accanto per difendere i propri ideali. Essere adulti significa prendersi responsabilità: non ė un atto dissennato aver dato la possibilità a ragazzi e bambini, pur seguendo protocolli rigidi, di vivere momenti di spensieratezza e divertimento attraverso lo sport che amano. La storia ci ha dato ragione: nessuno di loro era o è in pericolo. Anzi: se proprio vogliamo metterla in termini di salute (che, ricordiamo, è un concetto ampio, che non riguarda solo la sfera biologica), quella dei ragazzi è certamente migliorata. Degli elogi facciamo volentieri a meno, ma una cosa va detta se non altro in onore di chi si è messo a disposizione fin da maggio per questa singolare avventura: abbiamo avuto il coraggio che altri non hanno avuto. A proposito: non aspetteremo che la FIP si accordi con il politecnico di Torino per giocare 5 contro 5 (anzi 4 contro 4 per ragioni di distanziamento). Sono sufficienti l’ordinanza regionale del governatore e le linee guida della conferenza delle Regioni e Province Autonome. Abbiamo aspettato abbastanza. E ci prendiamo tutte le responsabilità.